INTRODUZIONE - ESISTE UN MODO GIUSTO DI VINCERE? SPORT E' EDUCAZIONE
Cosa fa di una persona una grande persona?
Ognuno di noi ha una risposta. I modelli a cui ispirarsi
sono molti.
Io credo che tutto si possa ricondurre e riassumere in a una scelta.
Alla scelta.
Una persona per chi fa ciò che fa? Lo fa prima
per se stesso?
O lo fa prima con gli altri?
Agire per se stessi è semplice, seduttivo, è un percorso in
discesa.
Agire con gli altri, insieme agli altri, “vedendo gli
altri”, richiede cuore, animo, carattere e conoscenze.
Richiede consapevolezza. La consapevolezza che, come ci
ricorda sempre il Dalai Lama, siamo tutti interconnessi. Uniti. In questa vita
ci siamo tutti insieme.
Quindi o cresciamo tutti insieme, vedendo l’altro ed
entrando in empatia con esso – e ciò ci farà crescere come individui in armonia
con gli altri.
O prevarrà il singolo, il prevaricatore legittimato dal
benessere della specie. E quindi non crescerà nessuno. Collezioneremo molte
piccole vittorie personali certo, riempiremo bacheche e scaffali, ma alla fine
del cammino saremo sempre isolati. Porteremo con noi quella sensazione di vuoto
esistenziale che ci affama e asseta continuamente.
Il percorso del “vedere gli altri” non è un percorso
semplice. Di sicuro io non mi permetto di elevarmi come maestro in questo,
perché se non avessi vicino persone meravigliose che mi ricordano quanto è
facile smarrirsi, non riuscirei nemmeno a tentare di percorrerlo questo
cammino. Ma credo sia importante porsi queste domande e tentate di
intraprendere quella strada. Inciampando ma proseguendo, grazie alla condivisione
con chi ci sta accanto.
Per questo mi sono rivolto ad una esperta che ha conoscenze,
competenze e soprattutto vede l’altro.
Affinché lei possa fare chiarezza riguardo al tema se sia giusto
o no imporre la propria supremazia durante una partita arrivando fino al punto
di umiliare un avversario che è oggettivamente inferiore.
Dopo che io avevo scritto: "(Udine) Pressa e raddoppia
anche sul più 40 (ci permettiamo di chiederci se davvero sia necessario farlo e
se abbia un senso tecnico. In panchina non ci siamo noi e probabilmente da
fuori le cose si vedono in maniera più chiara. Ostentare la propria superiorità
con chi è più debole, comunque non è mai un bel gesto) e segna 94 punti, "
[vedi http://parliamodibaskete.blogspot.it/2013/11/campionato-under-19-quarta-giornata.html
], molti di voi
hanno espresso la propria opinione personale, basata sui vostri valori. C’è chi
era d’accordo e chi no. Come è giusto che sia. E vi ringrazio per questo!
Ora è il momento di mettere da parte le nostre convinzioni
ed ascoltare cosa pensa un’esperta - che ringrazio per la Sua disponibilità - , una persona che conosce sia lo sport, sia
le persone. Una persona che può insegnare tanto sia a noi allenatori, che a noi persone.
LE DOMANDE AD UN'ESPERTA - VINCERE E POI?
DOMANDA: Nel basket femminile assistiamo sempre più spesso a squadre che, anche quando la vittoria non è in discussione perché sono oggettivamente superiori rispetto all'avversario, continuano ad imporre un gioco aggressivo che demolisce le possibilità di gioco avversario e che porta a una vittoria di 40/50 punti. Cosa provoca questo comportamento in chi lo subisce?
DOTT. SUSANNA PETRI: Ritengo che la risposta a questa domanda sia abbastanza
immediata; ognuno di noi probabilmente ha subito nella propria vita
un’umiliazione, e ricorda bene cosa si prova. In questo caso gli effetti soggettivi
sono gli stessi di un comune episodio di umiliazione (senso di fallimento,
vergogna, rabbia, frustrazione, impotenza) con la decisiva aggravante della
legittimazione del sistema.
Chi pratica uno sport di squadra a livello professionista o
semi-professionista, ma anche in misura minore a livello principiante, si trova
necessariamente inserito in un contesto “culturale” strutturato e regolamentato
che diventa una struttura anche psicologica, un riferimento interno fatto di
persone, situazioni e principi che conformano una modalità di pensiero e,
specialmente in questa fase di vita, costituiscono basi importanti per la
costruzione della propria identità. Se all’interno di questo contesto un
episodio oggettivo di umiliazione, accompagnato dai vissuti soggettivi
corrispondenti di vergogna e impotenza, viene legittimato e percepito come
normale, di conseguenza le modalità di pensiero e l’identità stessa si
conformeranno a questa percezione. E’ possibile che chi subisce un’umiliazione
autorizzata dal sistema in sui è inserito produca diversi possibili reazioni
comportamentali alternative, con la finalità di gestire i vissuti negativi. La
reazione, drastica ma in definitiva più sana, propria di una struttura dell’Io
e di un’identità più solide e definite (e non è in genere il caso di ragazzine
di 17 anni), potrà consistere nell’abbandonare il sistema (la società, la
squadra o addirittura lo sport in questione), ovvero più raramente di opporsi
ad esso; le altre possibili reazioni, meno sane ma adattive al sistema compromesso,
consisteranno nell’assimilare i valori del contesto di riferimento nutrendo il
desiderio di assumere il ruolo del carnefice e adoperandosi per coltivare
sentimenti e abilità orientate all’umiliazione dell’altro e all’aggressività
piuttosto che a una modalità cooperativa o sanamente competitiva. In altre
parole, l’ingiustizia subita, così come accade nei casi di abuso di altro
genere, produce una “mentalità abusante”, una cultura dell’umiliazione. Esiste
infine la “terza via”, quella della retroflessione dei vissuti negativi, in cui
la vergogna, la percezione d’ingiustizia e la rabbia non verranno proiettate
all’esterno ma auto-riferite, e ciò porterà l’individuo fragile per età e in
certi casi per predisposizione a mettersi in discussione, giudicarsi
eccessivamente e costruire un’immagine di sé negativa; una situazione che crea
i presupposti per disturbi psicologici anche gravi, legati alla carenza di
autostima e di auto-efficacia (ovvero la percezione di poter influire in
qualche modo sul proprio benessere e l’immagine positiva di sé).
DOMANDA: E cosa provoca in chi lo mette in atto?
DOTT. SUSANNA PETRI: Il meccanismo di costruzione di un’identità e di un’immagine
di sé conforme alla cultura nella quale si è inseriti funziona anche sul
versante di chi porta a casa la vittoria, ed anzi in certi casi ha conseguenze
estremamente più insidiose. Come nel famoso esperimento sull’autorità di
Zimbardo (Stanford prison experiment SPE; 1971), in cui un determinato
comportamento giudicato di per sé immorale veniva messo in atto senza problemi
e senza traccia di empatia o risentimento se imposto da un’autorità
riconosciuta, allo stesso modo l’aggressività e il narcisismo malsano esistente
in ognuno di noi ricevono in un contesto di legalizzazione dell’umiliazione
altrui una valida giustificazione e anzi un incentivo nella loro messa in atto.
Questo porta chi vince a godere della liberazione di impulsi che vengono a
lungo andare incontrollati in maniera sistematica ed egosintonica, in quanto
portano allo sfogo e alla sperimentazione autorizzati di sensazioni percepite
come positive, ma che in questo contesto mancano di un connotato di realtà (per
il loro eccesso e per la condizione di netta superiorità rispetto
all’avversario; per intenderci, è come se un adulto si sentisse onnipotente per
aver battuto un bambino a braccio di ferro). In altre parole, chi mette in atto
questo tipo di umiliazioni legittimate nei confronti dell’altro, specialmente
se in base a queste esperienze e alla “cultura” in cui è inserito sta
costruendo la sua identità, ha buone probabilità di trasformarsi in un
individuo con scarso esame di realtà e una visione distorta ed esaltata di se
stesso, una implicita fragilità dell’Io, data dalla mancanza di esperienze di
fallimento (e quindi la difficoltà oggettiva di poter contare su strategie di
difesa ottimali e sane, che non includano l’aggressività) e una progressiva
perdita della capacità di “vedere” l’altro, ovvero di empatia. Nel caso più
sano, in cui la persona si rifiuti di aderire alla cultura dell’umiliazione impostagli
dal sistema, essa andrà incontro ad un conflitto interno assimilabile a quello
che coinvolge i figli di genitori inadeguati, che si rendono conto delle loro
mancanze, ma non possono concepire un modello diverso e quindi di nuovo mettono
in discussione se stessi e la propria immagine positiva; gli effetti dunque, su
chi non accettasse di aderire alla strategia proposta come “vincente” da un
sistema così regolamentato, sarebbero gli stessi vissuti di impotenza,
depressione e scarsa fiducia in sé di coloro che si trovano sul versante dei
“perdenti”.
DOMANDA: Cosa andrebbe fatto affinché lo sport fosse davvero un
momento di crescita umana, personale e collettiva?
DOTT. SUSANNA PETRI: Ritengo questa una domanda davvero complessa, alla quale
sicuramente non è facile rispondere in poche righe. Sicuramente non dobbiamo
dimenticarci che lo sport è una vera e propria cultura, fatta di regole e
valori e principi ai quali tutti coloro che vi appartengono scelgono o si
trovano ad aderire. Le figure educative di riferimento in questo contesto
(allenatori e famiglia) devono pertanto stare molto attente a costruire e
proporre questa cultura tenendo conto della ricaduta che ha sul modo interno di
chi la vive, sulla sua identità, il suo funzionamento psichico globale e di
conseguenza il comportamento che metterà in atto anche in contesti esterni allo
sport. Attraverso lo sport, come attraverso la scuola, il contesto familiare, e
gli altri ambiti di esperienza dei ragazzi, si costruiscono persone pensanti,
senzienti e in relazione, e che hanno il diritto e il dovere di acquisire una
consapevolezza sana di sé, dell’altro e della realtà, rispettando tutte e tre
le cose. Inoltre il contesto dello sport è particolarmente importante perché
familiarizza i ragazzi (e gli adulti) con il delicato tema della competizione,
che è tanto indispensabile alla sopravvivenza come potenziale fonte di gravi
problemi relazionali. Va quindi dedicata un’attenzione estrema al modo in cui
questo concetto viene trasmesso e insegnato, soprattutto ai giovani. Ritengo
che sia importante e utile, per tutti coloro che si occupano di sport, e in
particolare di sport in età adolescenziale, tenere in attenta considerazione il
materiale umano con il quale si trovano a lavorare e la responsabilità che
hanno nella formazione della visione del mondo e di se stessi che questi
giovani individui sviluppano all’interno della cultura sportiva che gli viene
proposta.
CHI E’ SUSANNA PETRI
Psicologa, Psicoterapeuta. Terapeuta EMDR. Lavora
privatamente a Udine, presso lo studio Ercoli per lo sviluppo delle Risorse e
del potenziale Umano, e presso il centro di Campoformido per il trattamento del
gambling patologico e le nuove dipendenze. Si occupa di adulti e di
adolescenti.
"Ritengo che sia importante e utile, per tutti coloro che si occupano di sport, e in particolare di sport in età adolescenziale, tenere in attenta considerazione il materiale umano con il quale si trovano a lavorare e la responsabilità che hanno nella formazione della visione del mondo e di se stessi che questi giovani individui sviluppano all’interno della cultura sportiva che gli viene proposta".
RispondiEliminaAmen!
Intervista illuminante! Bravo Alistair e un sentito grazie alla dottoressa.
Condivido anche io come Fulvio che questa sia un' intervista illuminante, per me da far leggere ad ogni allenatore e genitore che ha a che fare con ragazzi/e giovani.
RispondiEliminaSpesso si vedono allenatori che non allenano una squadra, ma allenano se stessi, e ovviamente chi paga (in termini di crescita emotiva) è sempre il ragazzo/a.
Spesso pensiamo di sapere tutto su tutto e non ci interessa cosa dicono gli altri, anche se su certi temi ne sanno più di noi; spero che questa intervista apra la mente di molti addetti ai lavori, ne guadagnerebbero molto i giovani atleti, in più credo che sia anche una crescita professionale per un allenatore/educatore meditare su quanto detto dalla Dottoressa Susanna Petri